Quaderni di classe


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Sempre più spesso a noi insegnanti capita di avere a che fare con alunni e genitori che contestano i voti che decidiamo di assegnare.
I ragazzi arrivano davanti a noi con facce meste, evidentemente scontenti, ci pongono una serie di domande sull’interrogazione che hanno appena terminato.
Quello che a loro interessa è capire perché la prova non è stata un successo. Questa loro inchiesta termina sempre con la stessa frase: “…perché a me era sembrato di essere andato/a bene e pensavo di meritare di più…”
Quasi sempre è carente la capacità di autovalutarsi, come ho già sottolineato in post risalenti a qualche tempo fa.
Ho comunque l’abitudine di prendere sul serio queste richieste ed entro sempre nei particolari dell’interrogazione, mettendo in evidenza gli aspetti positivi e quelli negativi.
Da molti anni tengo dei veri e propri “quaderni di classe”, dei quadernoni, cioè, sui fogli dei quali c’è – in ordine alfabetico – il nome di ogni alunno e la materia che svolgo in quella classe.
Ogni volta che interrogo una persona segno la data e scrivo ogni domanda che pongo. Per la risposta do un voto immediato (4/5/6/7…): il voto finale è una media di quelli assegnati per i vari quesiti.
Inoltre la pagina-alunno mi permette di dare – ad ogni incontro con i genitori – un chiaro quadro della situazione: “A suo figlio/a ho chiesto questa cosa, ma la risposta non era sufficiente, nel contenuto complessivo e nella sua articolazione.”
Quando i ragazzi vengono da me, apro il quaderno e mostro loro l’insieme dell’interrogazione e, quasi sempre, riconoscono di avere tralasciato nel computo alcune parti che, nella loro ricostruzione parziale, mancavano all’appello.
Il problema diventa più spinoso da risolvere quando i genitori premono in modo sconsiderato sui figli, che diventano delle vere e proprie propaggini, degli strumenti, tramite cui si scaricano le tensioni dell’intera famiglia. Si tratta di nuclei familiari che d’abitudine mettono in discussione il lavoro dei docenti davanti ai ragazzi o insieme a loro e spesso questo accade soprattutto per trovare uno sfogo o individuare i responsabili di frustrazioni e ambizioni personali andate a vuoto, senza avere la minima idea della frattura che in questo modo si crea tra alunno e docente, poiché si mina alla base un rapporto che dovrebbe essere di fiducia reciproca. E allora l’alunno si sente in diritto di contestare le valutazioni, anche in modo poco garbato.
Con questo tipo di genitori e di alunni anche il “quaderno di classe” funziona male, poiché deve combattere contro il pregiudizio e dunque anche l’elenco delle interrogazioni va a sbattere contro il muro di gomma della sfiducia “a priori”.

Paolo, il telefono e la pratica dell’Om


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Mi convinco sempre di più del fatto che, se non si dà una calmata, al mio amico Paolo, collega e amico che insegna in una scuola della mia provincia, verrà un coccolone.
Se la prende troppo, per ogni cosa che accade a scuola, è davvero rétro, rispetto al nuovo che avanza (purtroppo) sempre di più.
Ieri mattina ci siamo visti per andare in giro per mercatini. Cappuccino e chiacchierata. Si vedeva che era furibondo, ma avevamo stabilito prima che non avremmo assolutamente parlato di scuola.
Se ne stava seduto sulla sedia come un supplì che sta friggendo nell’olio.
“Dimmi tutto, avanti!” – ormai ero rassegnata.
“Non ne posso più! Ti giuro! Me ne vado! Me ne vado da quella scuola maledetta!”- ha quasi urlato, facendo voltare molti dei presenti.
“Paolo! Hai bisogno di calmarti! Te lo dico da un bel po’ di tempo, se tu venissi con me a fare yoga, forse riusciresti a farti scivolare addosso certe arrabbiature, che alla fine risultano inutili!”
“Beh! Vedrai che quando ti avrò raccontato cos’è successo, ti arrabbierai anche tu!”
Che era successo?
Mentre se ne stava in classe a ricreazione, Paolo era stato chiamato da una bidella.
“Professore, la vogliono al telefono!”
Lui aveva pensato ad una chiamata dalla segreteria, o dalla Dirigente. Niente di tutto questo.
“Era la mamma di un ragazzo che avevo interrogato alla prima ora e che aveva preso un brutto voto! Voleva conoscere gli argomenti dell’interrogazione!”
“E come mai?”
“Aveva aperto il registro elettronico ed aveva notato il brutto voto, la macchia! La signora voleva sapere le motivazioni dell’insufficienza!”
“Ma è una cosa grave, gravissima! Come mai il centralino si è permesso di passarti quella telefonata?”
“E infatti! Comunque le ho chiarito ben bene che non era settimana di ricevimento e che, qualsiasi cosa avesse da dirmi era quello il momento per parlare con me e non altri! E lo sai che cosa mi ha detto?!”
“Cosa?”
“Che sono uno che si altera troppo facilmente e preferiva non continuare la chiacchierata. Allora io le ho risposto che ero IO a non voler proseguire quella conversazione! Ma dico! Dove vogliamo arrivare? Anche al telefono ci chiamano, pure durante le ore di lezione!”
“Adesso calmati! Vedi, avresti proprio di fare pratica con l’Om, in questo momento, mio caro!” – gli ho risposto, cercando di sdrammatizzare.
Certo che, però, la nostra vita si fa ogni giorno più difficile, stretti come siamo tre esigenze così diverse e contrastanti. Altro che Om: ci vorrebbe calmante a piovere!

Se a scuola si semina zizzania


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Leggevo, poco fa, un post de “La Tecnica della scuola” all’interno del quale si analizzava il numero crescente di sospensioni nelle quali sono incorsi dei colleghi.
Alcuni hanno subìto sanzioni per aver agito apertamente contro la legge, ma altri, i casi che più mi hanno colpito, avevano agito al fine di alterare il clima generale all’interno della loro scuola. In quelle scuole, cioè, si viveva male per colpa del modo di fare di alcuni nostri colleghi.
Non è un mistero che negli ultimi anni a scuola le cose siano mutate e non sempre in meglio, specie per ciò che riguarda i rapporti tra colleghi. La scuola non è un ufficio qualsiasi: da noi le dinamiche interne valgono doppio, perché siamo soggetti psicologicamente molto sollecitati, per via del lavoro che svolgiamo.
Sono stata precaria per molti anni e, dopo i tagli della Mariastrega, per due volte sono risultata “perdente posto”, dunque, nel tempo, ho avuto modo di confrontarmi con molti Dirigenti e moltissimi colleghi diversi.
Le scuole che rimpiango meno sono, ovvio a dirsi, quelle il cui clima era caratterizzato dall’accoppiata mefitica: competizione+maldicenza, capace di creare dinamiche orrende e di generale uno sviluppo esponenziale del burnout nei più fragili.
Ne ricordo una in particolare, anni fa, in cui alle maldicenze diffuse tra gli insegnanti (che non mi investivano, per fortuna, in quanto ero solo una “di passaggio”, con incarico annuale) si univa un’intensa attività di spionaggio che caratterizzava il personale non docente.
Per finire nella “lista dei proscritti” bastava un nonnulla: anche solo non essere simpatici a quelli che contavano.
I pettegolezzi, le mezze parole, poi finivano per far reagire nel modo sbagliato proprio le vittime, creando, in questo modo, una situazione paradossale, che premiava proprio i malvagi, che apparivano come le vittime, mentre erano in realtà i peggiori aguzzini.
Ovvio che qualcuno, in quel clima avvelenato, perdesse il senso della misura: ricordo consigli di classe molto, molto effervescenti, con colleghi “accompagnati fuori a prendere un po’ d’aria”, pur di calmare le acque assai agitate delle riunioni.
Proprio questi trascorsi, per niente piacevoli, mi hanno spinto fin da subito a non credere troppo nelle virtù di certe parti de “La Buona scuola”, perché il criterio della premialità rischia di fare solo da catalizzatore in situazioni come queste, già potenzialmente esplosive.
Se una scuola ha un buon clima interno, non ci sono forse troppi rischi, ma, nel caso contrario, laddove ci fosse competizione unita a comportamenti scorretti, alla fine a risultare tra i “premiati” potrebbero risultare quelli che andrebbero sanzionati e viceversa.
Un bel garbuglio, non c’è che dire!

Cip l’Arcipoliziotto e la trappola del cosiddetto “aggiornamento obbligatorio”


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Oggi pomeriggio mi sono sentita proprio come un personaggio di Jacovitti – uno dei miei preferiti: Cip l’Arcipoliziotto, quello che in continuazione, durante le sue indagini, pronunciava la frase “Lo supponevo!”
Ebbene: all’uscita dalla prima “lezione” di un corso di aggiornamento che si è rivelato assai peggio di quanto tutti noi colleghi temessimo, ho pronunciato anch’io quella frase: “Lo supponevo!”
Facciamo un passo indietro.
Quando, qualche mese fa, è stata approvata la famigerata legge, che porta il nome “La buona scuola”, uno dei pochi aspetti che avevo trovato interessanti, mi era sembrato proprio l’intento di obbligarci a scegliere una formazione continua.
Nella mia visione ingenua delle cose avevo fatto una mia catena di ragionamenti. Uno dei rischi che corriamo, come docenti, è quello di fossilizzarci. Se siamo “costretti” ad aggiornarci, potremo di nuovo varcare le soglie dell’Università, iscriverci a dei corsi agganciati alle materie che insegniamo. In questo modo saremo sempre in contatto con la ricerca e troveremo nuova linfa, che darà un impulso positivo al nostro lavoro.
Detto, fatto.
Settembre.
La città in cui lavoro è anche sede universitaria. Mi sono fatta la mia brava fila in segreteria degli studenti, ho chiesto quanto costasse l’iscrizione ad un corso singolo, ho preso i miei bravi moduli, poi ho telefonato alla Dirigente per sapere quale fosse l’esatta procedura da seguire.
E qui è arrivata la doccia gelata. L’università, o almeno, i corsi universitari annuali non sono considerati momenti formativi per i docenti.
E’ obbligatorio scegliere tra “enti formatori” riconosciuti dal Ministero.
E, a quel punto, mi sono cadute le braccia, perché stavo già immaginando i soggetti con cui avrei avuto a che fare: quelli che, da decenni, gestiscono i corsi di aggiornamento nelle scuole.
Gente azzeppatissima che della pratica del “formatore” ha fatto una vera e propria arte.
Purtroppo per me il Collegio dei Docenti della mia scuola ha stabilito che quest’anno ognuno di noi avrebbe dovuto fare almeno 15 ore di aggiornamento e, non avendo affatto voglia di farmi spolpare con la frequenza di un corso a pagamento, ne ho scelto uno tra quelli proposti dall’USR della mia regione.
Tremenda scelta da parte mia.
Oggi, all’apertura della prima slide, letta dal “formatore” come se stesse salmodiando durante un rito sacro, ho fatto quello che fanno gli alunni in classe: mi sono posizionata nella ultime file ed ho acceso lo smartphone, cercando sollievo su facebook, mentre aspettavo che la tempesta passasse.
All’uscita da quella tortura (la prima di tre, da tre ore) ho pronunciato ad alta voce la frase incriminata: “Lo supponevo!”

Contro il bullismo in classe si può fare molto: basta esserci!


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Qualche giorno fa ho pubblicato un post in cui ho affrontato la questione del bullismo. Come scrivevo già in quell’occasione, sono convinta che su questo aspetto della vita scolastica le campagne calate dall’alto non possono fare molto, anzi, ad essere sincera, credo che si tratti solo di uno sperpero di soldi pubblici, che non riesce a raggiungere l’obiettivo – i ragazzi – perché quasi sempre passa al di sopra delle loro teste, o li trova come ascoltatori assolutamente distratti, con un’adesione di superficie, di facciata.
Credo che la sola, vera, campagna che potrà funzionare sarà quella portata avanti con serietà da noi insegnanti, senza che passiamo attraverso particolari processi di “formazione” (altro totem da cui ormai siamo afflitti, peggio della scabbia!).
Questa campagna si chiama: ascolto.
Negli anni ho imparato moltissimo dai ragazzi semplicemente standomene in classe nei momenti iniziali, a ricreazione, all’uscita, osservando e ascoltando. Bisogna imparare a guardarli bene quando arrivano, prestare attenzione a come salutano, a come si siedono nel banco, come si relazionano con i compagni. Se si accorgono di questa osservazione, se ne stanno rintanati in se stessi, ma se si persevera, allora si rilassano e si lasciano leggere, perché non se ne rendono conto più, o hanno imparato a tollerare una presenza “estranea” al loro gruppo. In questo modo si riesce a capire una serie di dinamiche. Basta guardarli, seguire gli sguardi, il tono di voce, gli spostamenti all’interno della classe: già questi elementi consentono di capire se c’è una forma di emarginazione o di mobbing.
La nostra presenza costante farà da sostegno a quelli che si sentono più fragili e, senza essere invasivi, avremo modo di capire tante cose del loro mondo, così diverso dal nostro.
L’adulto mimentizzato in classe nei momenti in cui non c’è lezione è l’argine più stabile per le forme nascoste o manifeste di bullismo.

La difficoltà di far passare le regole in mezzo al caos che impera


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Ogni mattina, se c’è bel tempo, ho l’abitudine di andare a scuola a piedi. Un paio di chilometri, ma, si sa, man mano che l’età avanza, camminare fa molto bene. Durante il percorso mi soffermo spesso ad osservare quello che vedo intorno, ma non è un bel vedere, un bell’osservare. Le strade sono sempre più alla mercè dell’inciviltà diffusa: cicche, gomme da masticare, tutto allegramente in terra. Non parliamo poi delle deiezioni canine. Riguardo a ciò, mi do una spiegazione di carattere socioeconomico: la crisi deve avere spinto le persone ad economizzare persino sulle bustine per raccogliere le cacche dei cani, dal momento che ormai le strade della città in cui lavoro sono costellate e bisogna fare attenzione a dove si poggiano i piedi.
Ho anche l’abitudine di percorrere le stradine della parte medievale ed in particolare una assai stretta che, stando al Codice della strada, sarebbe caratterizzata dal divieto di transito. In realtà è percorsa regolarmente da motorini, macchine, sia nel senso di marcia, sia contromano. Un paio di volte ho provato a protestare e mi sono beccata dei bei vaffa…, mentre un’altra volta un automobilista indignato per le mie proteste, ha asserito che vicino al cartello del divieto di transito c’è n’era uno che consentiva il passaggio ai residenti. Cosa assolutamente falsa.
Inutile dire che non ho mai visto un vigile ad una delle estremità della via a segnarsi le targhe degli incivili.
Tutto questo per dire cosa?
Che di mestiere io faccio l’insegnante e che ogni santo giorno cerco di far passare nei miei ragazzi l’idea che il rispetto delle regole sia essenziale. Da parte di tutti.
In questi ultimi anni, invece, ci siamo incarogniti, è scomparso ogni senso del decoro, del rispetto. Lo so è un discorso da vecchia barbogia, da arrabbiata perenne, ma io mi pongo il problema, che è essenzialmente di credibilità. Se noi adulti non rispettiamo le regole, nemmeno quelle minime, come la raccolta della cacca dei nostri cani, come possiamo pretendere che i ragazzi, i “noi” di domani, lo facciano?
A noi la risposta.

I miei dubbi sull’affidabilità del metodo INVALSI


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Qualche settimana fa ero alle prese con un Collegio Docenti-fiume nel quale la mia attenzione entrava e usciva, provata (come spesso capita a noi docenti) dalle chiacchiere estenuanti di colleghi che da un bel pezzo, ormai, si stavano divertendo a giocare al “Lei non sa chi sono io”.
Ad un certo punto, però, mi sono concentrata su un battibecco nato tra la Dirigente ed un collega RSU, a proposito dei test INVALSI, che nella Scuola Secondaria superiore si svolge ad Aprile.
Oggetto del contendere era la possibilità di risalire, tramite l’analisi delle prove, all’operato dei singoli docenti e, di conseguenza, la possibilità, reale o remota, di valutare il lavoro del docente di matematica o di italiano.
Non è certo una novità e non c’è nemmeno da scandalizzarsi: se le prove hanno un codice, è evidente che si possa risalire ai docenti “responsabili” dei cattivi risultati.
Mi sono però ricordata di una situazione molto particolare che ho visto coi miei occhi qualche anno fa, nel liceo in cui ho insegnato prima di quello attuale.
La mia Dirigente di allora, precorrendo i tempi, aveva la mania delle statistiche e si era messa in capo di studiare il livello di preparazione delle classi seconde. Arrivò a stilare una sorta di classifica. Ne venne fuori, naturalmente, la classe migliore, affiancata, all’altro estremo, da quella peggiore.
Fu un problema fare un “cazziatone” all’insegnante responsabile della performance negativa, perché era la stessa persona responsabile di quella eccellente e quell’insegnante ero io.
Avevo da due anni queste due classi, insegnavo le stesse materie, (italiano e latino) con lo stesso numero di ore (anzi: nella “migliore” avevo un’ora in meno, perché partecipava ad un progetto che si avvaleva del 20% del monte ore annuale).
Eppure – nonostante tutti i miei sforzi – (e ne feci moltissimi) non sono mai riuscita a colmare il gap tra i due gruppi-classe. In che modo avrei dovuto essere valutata?
Da allora i miei dubbi sull’INVALSI sono rimasti abbarbicati a questa che è una situazione-limite, certo, ma indicativa della infondatezza di questa smania di misurazione e di valutazione del nostro operato, che certi enti vorrebbero imporre in modo capillare.

Il vaso di di terracotta che viaggia in mezzo ai vasi di ferro


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In base al Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro i docenti vengono individuati come soggetti responsabili della sicurezza degli alunni, dal momento in cui questi entrano in aula, fino al momento in cui arriva un altro docente, al cambio dell’ora, a prendersi in carico la responsabilità, o fino al momento in cui gli alunni non varcano di nuovo la soglia della scuola, cioè all’uscita.
Il terribile episodio avvenuto qualche giorno fa, di un ragazzo caduto dalla sedia e morto per i gravissimi traumi riportati, ha ricordato a tutti noi insegnanti come sia facile passare in un secondo da una situazione di caotica normalità ad una tragedia imprevedibile.
Imprevedibile?
Stando alla normativa, noi insegnanti dovremmo essere in grado di prevedere tutto, anche un attacco degli alieni, ma nella pratica quotidiana ci muoviamo in contesti dove ci sarebbe da ringraziare Dio, ad ogni suono di campanella, se in quell’ora non è accaduto nulla. Se sono tutti sani e salvi.
Ci sono aule di nemmeno trenta metri quadri in cui sono stipati trenta e più alunni. Se ci si trovasse di fronte ad una evacuazione improvvisa e non simulata, la maggior parte dei ragazzi rimarrebbe di certo vittima della calca che si verrebbe a creare.
Quest’anno in una delle mie classi i miei alunni sono così stipati, che un incidente come quello avvenuto in Abruzzo qualche giorno fa non potrebbe accadere, per mancanza assoluta di spazi vuoti.
La sicurezza a scuola è lo spauracchio con cui ci confrontiamo ogni giorno: alunni che giocano con le matite durante le lezioni, che roteano gli ombrelli al momento dell’uscita, ragazzi che corrono in corridoio durante la ricreazione, che si spintonano mentre escono, scendendo le scale. Moltiplicate queste situazioni a rischio per trenta alunni e forse riuscirete a capire l’ansia che coglie l’insegnante. Troppo spesso egli si sente come il classico vaso di terracotta costretto a viaggiare in mezzo ai vasi di ferro: perché, alla fine, è lui l’elemento che viene citato in giudizio come colpevole di mancata vigilanza nell’ipotesi di un grave incidente.
A scuola ormai è tutto un proliferare di cartelli di allarme: sui vetri, accanto alle scale. Sulle rampe sono appesi avvisi che spiegano il pericolo insito nello sporgersi troppo, come se questo non fosse implicitamente chiaro, senza ingenerare il terrore tramite cartelli lapalissiani.
Questo spiega perché così spesso noi ci dotiamo di forme assicurative di autotutela, perché il fatto di dover rispondere civilmente e penalmente di quello che compiamo ogni giorno ci rende davvero inquieti, soprattutto perché troppo speso ci muoviamo in contesti che hanno la fragilità di un castello di carte. Altro che Buona scuola!

Bullismo, che paura!


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Il bullismo a scuola è sempre più diffuso. Ci sono migliaia di ragazzini – specie alle medie – che quotidianamente devono affrontare il terrore di varcare la soglia della scuola e della loro classe. Il motivo della diffusione epidemica di atti di bullismo? In realtà i motivi sono molti, ma alcuni di essi sembrano pesare più di altri. Innanzitutto la presenza a scuola di ragazzi del tutto ineducati, resi forti dal fatto che sanno di avere alle spalle dei genitori da tempo incapaci di imporsi, rispetto ai pargoli, con regole anche minime e dunque, come educatori, sono privi di qualsiasi autorevolezza agli occhi dei figli, resi rabbiosi dalla mancanza, intorno a loro, di qualsiasi forma di contenimento. Invece di ammettere il loro palese fallimento, poi, questi uomini e queste donne sono i censori più intransigenti della scuola, se essa accenna anche minimamente a censurare il comportamento dei loro figli.
Un’altra assenza che troppo spesso appare chiara è quella di tanti colleghi, che non si trovano in classe quando dovrebbero e, se ci sono, fanno finta di non vedere.
La situazione più drammatica, come dicevo, è quella delle Scuole Medie. Credo che troppo spesso ci si trovi di fronte a situazioni totalmente fuori controllo, a mio avviso, senza che, a questo punto, si possa più porre un rimedio, se non demolendo tutto, compreso l’edificio.
Ho vissuto in prima persona l’esperienza con mio figlio, che è entrato sereno in prima media dalle scuole elementari ed è uscito in terza psicologicamente provato, per via delle violente pressioni che un gruppetto di compagni incivili imponeva a tutta la classe. Lui ancora oggi dice che è stata una grande palestra di vita, ma io non ne sono convinta.
Per essere più chiara: quegli incivili, seduti nelle ultime file dei banchi, si masturbavano in classe, quasi tutti i giorni, e molti degli insegnanti, forse per un senso di spossatezza (erano vicini alla pensione), forse per non avere guai ( credo che sia stato un insieme delle due cose) non alzavano nemmeno gli occhi per controllare, pur sapendo benissimo quello che accadeva durante le ore di lezione.
Il medesimo gruppetto di incivili aveva poi terrorizzato il resto della classe con minacce di ritorsioni tremende se qualcuno avesse provato a fare la spia “ai grandi”.
Come insegnante delle superiori, poi, ho modo di ascoltare i racconti dei ragazzi di prima liceo, che descrivono situazioni desolanti, vissute alle scuole medie: botte, vessazioni, prepotenze all’ordine del giorno e assenza costante di controlli in moltissimi casi. Colleghi che non sono in classe all’arrivo degli alunni e che non aspettano che tutti siano usciti di classe, in modo tale che in quei minuti, pochi, il cretino di turno ne approfitta per terrorizzare la maggior parte dei compagni, che poi non ha il coraggio di denunciare.
Se non si pone rimedio a tutto questo, qualsiasi campagna di “sensibilizzazione”, magari calata dall’alto, non riuscirà a sortire effetto alcuno. Saranno solo parole che cadono nel vuoto.

Pettegolezzi


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Chi legge abitualmente i miei post, sa che ho un collega, Paolo, che insegna in un istituto tecnico della provincia ed è sempre arrabbiato per qualche motivo, spesso legato alla vita della scuola. A volte cerco di tranquillizzarlo, più che altro per salvaguardare la sua pace interiore.
Ieri, però non ho potuto fare altro che dargli ragione, anzi, ho rinfocolato la sua rabbia, aggiungendo la mia indignazione.
Nel pomeriggio ho ricevuto una chiamata sul telefonino. Era lui.
“Questa devo proprio raccontartela!” – ha esordito – “…perché, altrimenti, rischio di esplodere!”
In mattinata nella sua scuola – come in mille altre in Italia – si stava svolgendo, nella palestra, la festa di Carnevale.
“Una baraonda! Ho ancora il mal di testa!”
Paolo si era seduto su una delle panche che corrono lungo le pareti. Accanto a lui c’era una collega e tutt’intorno ragazzi mascherati che andavano e venivano.
“Ad un certo punto è arrivata una ragazza che, senza tanti complimenti, senza nemmeno chiedere scusa per i modi, si è seduta tra me e la collega, che era stata la sua insegnante fino all’anno scorso. Non so perché, ma quella ragazza non mi è piaciuta fin da subito!”
Le due avevano cominciato a parlare. Il pretesto era stata un’informazione che la ragazza voleva chiedere alla collega.
“Poi, dopo qualche minuto quella impudente ha detto alla collega che si trovava molto male con la nuova insegnante e che si era trovata mille volte meglio con lei!”
Subito dopo aveva cominciato ad elencare in modo minuzioso le “malefatte” della nuova docente, dal modo di spiegare, a quello di interrogare, alla gestione dei rapporti con la classe.
“…e la cosa è andata avanti per un bel po’!… Ora, non mi scandalizza tanto il fatto che quella ragazza abbia detto quelle cose: è giovane e non capisce un bel niente in fatti di rapporti umani. Bada solo al suo tornaconto personale…Quello che mi ha sconvolto è il fatto che la mia collega, seduta accanto a me, non solo le abbia permesso di continuare, mentre avrebbe dovuto stopparla già al primo accenno di pettegolezzo, ma ha anche fatto delle domande, autorizzando, in pratica, quella manovra oscena!”
Stavolta Paolo aveva – ed ha – tutte le ragioni per indignarsi: quando capiremo che il nostro lavoro è fatto anche, e soprattutto, di sfumature, per lo più delicate?
Quando realizzeremo che qualche volta, pur di solleticare il nostro amor proprio e di sentirci dire che siamo insostituibili, mettiamo a rischio il lavoro di un collega che sta facendo del suo meglio per gestire il lavoro e la classe?
Pensiamoci, la prossima volta!