TRECENTOVENTISEI


“Come mai sei così arrabbiata?” – esordisco al telefono, sentendo subito il tono di voce di chi sta dall’altra parte.

Paola è una mia collega, conosciuta nei lunghi anni di precariato, trascorsi da entrambe nei più disparati angoli della provincia. 

Lei arrivava dalla Capitale, ma, zitta zitta, era riuscita a trovare una cattedra non troppo lontana dal suo quartiere spostandosi più a Nord nella regione, da noi provinciali.

Col passaggio di ruolo era arrivato finalmente il posto vicino casa.

Siamo restate amiche.

Ogni tanto ci sentiamo al telefono e ci scambiamo querimonie. Sui nostri piccoli e grandi guai.

Nei mesi scorsi abbiamo parlato fino allo sfinimento della pandemia, della nostre paure durante il lockdown, ora della nostre ansie per il rientro in presenza e dei tanti problemi irrisolti.

(che poi, a dirla tutta, sono i problemi che la scuola si trascina dietro da anni: con la stagione eccezionale che abbiamo appena vissuto, si sono solo riacutizzati, sono ovviamente peggiorati)

“Sono arrabbiata, perché non lo sopporto più!” – dice, con tono melodrammatico.

Sta parlando del suo Dirigente Scolastico. 

I loro rapporti non sono mai stati particolarmente armoniosi, ma da qualche tempo l’insofferenza per il suo modo dispotico di dirigere l’istituto in cui lei lavora è aumentata.

È arrivata al punto massimo di tensione.

E io – ascoltando al telefono – ne faccio le spese.

“Mia cara, capisco quello che dici, ma mettiti, per una volta almeno, nei suoi panni! Non lo voglio giustificare più di tanto, ma, in un momento come quello che stiamo vivendo, non vorrei essere un Preside, nemmeno per tutto l’oro del mondo! Per carità! Mi fanno pena, un po’ tutti!”

Lei sospira – dall’altra parte della linea – spazientita.

“Non si sono mai messi nei nostri panni, in questi mesi! Non fanno altro che riempirci di compiti assurdi e tutti inutili, per giunta!”

(“adesso inizia il clou della lamentazione” – mi dico)

“Durante l’ultimo Collegio, poi, non ha fatto altro che caricarci di incombenze, di cose da fare, pur conoscendo il momento difficile che stiamo tutti attraversando. Ma non ti accorgi che, a novembre, siamo già tutti stanchi morti? Non ti rendi conto?”

(vero: arrivo sveglia fino alle otto di sera e poi mi butto nel letto con l’entusiasmo di un naufrago che afferra l’asse di legno che lo farà galleggiare per un po’ di ore)

“Hai ragione, mia cara!Sono davvero stanca. Anch’io.”

“E invece di alleggerire il nostro lavoro, lui che fa? Lo appesantisce, lo rende intollerabile!”

(a scuola ci si salva solo se – come accade nelle partite di Campo Minato – si riesce ad evitare ogni pericolosa forma di coinvolgimento in incarichi extra, ma è difficilissimo riuscirci: la lusinga-minaccia del Preside è sempre in agguato)

“E poi, quel suo narcisismo del diavolo! Ah, come lo detesto! Vuoi sapere che cosa ho fatto nel corso dell’ultimo Collegio? Dopo due ore e rotti di collegamento online, arrivato dopo cinque-ore-cinque di lezione che avevo fatto al mattino?”

(mi preoccupo quasi: che cosa avrà mai fatto Paola per vendicarsi di lui?)

“Ho contato tutte le volte in cui ha pronunciato “Io”, la parola che ama di più, quella che abita tutto il suo mondo, le sue frasi!”

(cara pandemia, a cosa ci hai ridotto!)

“E…?”

“Trecentoventisei. Ha detto “Io” per trecentoventisei volte. In due ore. Trecentoventisei. Voglio cambiare scuola!”

(insisto: cara pandemia!)

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